Un uovo deforme e rattoppato: già dal logo è evidente la “diversità” di Abnormal, brand di moda e di design etico tra i pochi esempi in Italia di impresa sociale Ibrida.
Abbiamo intervistato Massimiliano Burini, uno dei quattro soci fondatori, che ci ha spiegato che bisogna essere un po’ folli e un po’ “abnormal” per lanciarsi in un’avventura come questa. Massimiliano sarà uno dei testimonial del laboratorio formativo sull’impresa sociale Orientalab, il 9 e 10 aprile.

Come è nata l’idea di Abnormal?

Abnormal è nata dall’incontro di quattro persone provenienti da ambiti diversi.
Io sono attore e regista teatrale, mio fratello Daniele ha alle spalle una lunga esperienza lavorativa in Diesel: a un certo punto è stato naturale pensare di unire le nostre energie in un’attività che abbinasse l’arte e la moda. La svolta “sociale” è avvenuta con l’incontro con gli altri due soci, Marco Segoloni e Roberto Leonardi, provenienti dal mondo dell’economia sociale.
La crisi ci ha fornito una grande spinta, quello che poteva rimanere semplicemente idea si è concretizzata in azione. Era il momento giusto per osare e per rischiare, creando un’impresa sociale che potesse sviluppare un modello economico innovativo sul piano artigianale e del “made in italy”. Un marchio condiviso dove le esperienze di più persone potessero essere messe in linea per costruire un prodotto di alto livello in grado di raccontare l’arte, la cultura e l’impresa italiana.
Abnormal è il nome perfetto per il marchio e per la nostra impresa, è stato scelto partendo proprio dalle caratteristiche dell’impresa sociale: il concetto di diversità, di non conformità per noi è qualcosa di fondamentale da incentivare.
C’è uno slogan che mi piace sempre ricordare: “Per fare un’impresa bisogna essere coraggiosi, per fare un’impresa sociale bisogna essere Abnormal”: il concetto è proprio questo!

Come riuscite a coniugare il valore artistico del made in Italy con una filiera di produzione “etica”?
In Abnormal non esiste una fabbrica, ma un luogo dove ci si incontra, si studia, si pensa, si crea; poi ognuno, per le proprie mansioni sviluppa un pezzo del prodotto. Noi seguiamo la produzione per mettere tutti in linea, andiamo alla ricerca di persone – piccole aziende o artigiani – che vogliano condividere questo tipo di azione.
Io credo che oggi in Italia ci siano tantissime energie ferme, giovani e non: artisti, ma anche artigiani in pensione, in cassa integrazione, o che hanno perso il lavoro perché le aziende hanno chiuso. Stiamo cercando di riunire tutte queste esperienze attorno a un tavolo per far nascere la famiglia Abnormal, e tutte queste persone e queste aziende diventeranno soci dello stesso prodotto. Cercheremo di sviluppare internamente processi che siano in grado di abbattere sempre di più i costi di produzione per ottenere un marchio di altissimo livello a un prezzo che sappia rispettare la qualità del prodotto, ma anche garantire una certa accessibilità.

Puoi spiegarci la scelta di nascere come impresa sociale ibrida?
Il nostro reale core business è creare valore sociale attraverso l’abbigliamento: prima pensiamo al progetto da sostenere, poi costruiamo il prodotto che lo sostiene.
Non potevamo entrare nel mondo della moda senza fare profitto, quindi abbiamo creato, a livello giurisprudenziale, una società che potesse rendersi impresa sociale facendo profitto. Per statuto il 50% del nostro utile deve essere investito in progetti sociali a noi esterni.
Molte imprese possono dire di fare donazioni, la differenza sostanziale è che noi produciamo una linea di abbigliamento per sviluppare azioni che devono avere una ricaduta chiara, reale e misurabile nel sociale. Questo ci permette di lavorare come un’impresa normale, ma con uno scopo alto e difficile da raggiungere. Siamo assolutamente abnormal anche nello statuto!

Quali saranno i primi progetti che sosterrete?
Abbiamo appena chiuso un rapporto con un’associazione italiana che lavora in Togo. Con la vendita dei nostri capi andremo a sostenere la produzione di piccoli kit fotovoltaici che forniscono illuminazione alle abitazioni nei villaggi, dove ci si alimenta ancora con il petrolio, con tutti i problemi e i rischi che ne conseguono.
Stiamo poi trattando per un progetto in un carcere di sicurezza a Capanne, in Umbria, con l’ intento di fornire un fondo per la formazione professionale dei detenuti. Un giorno sarebbe bellissimo creare un’impresa con loro, ma i processi sono abbastanza lunghi e non molto semplici a livello burocratico.

In che fase è il progetto Abnormal?
ll brand è stato presentato lo scorso febbraio negli spazi della Galleria d’Arte Contemporanea ArtEspressione di Milano; una location non casuale, voluta per dare l’idea di “contaminazione” che contraddistingue i nostri prodotti.
Ad aprile siamo al Fuori Salone, nel quale presentiamo i prodotti realizzati dai nostri designer e il campionario della collezione inverno 2015.
Dopo il Fuori Salone apriremo il nostro shop on line. Siamo anche in trattativa con alcuni negozi (a Londra, Ibiza, Milano, Roma, e Perugia, dove c’è la nostra sede), la selezione è abbastanza certosina perché vogliamo che i luoghi che ospitano il nostro marchio siano in linea con la nostra azione sociale.
Infine stiamo per realizzare un’altra follia. Abbiamo acquistato un bus inglese degli anni settanta, lo stiamo ristrutturando e a breve partiremo per un tour nelle principali città italiane per presentare i nostri capi e i progetti sociali che andremo a sostenere.

Ritorniamo per un attimo ai vostri inizi. Qual è a tuo avviso la scintilla che deve scoccare nel giovane imprenditorie sociale?
Al di là dell’idea vincente che una persona può avere, io penso che per fare impresa sociale ci sia bisogno di avere uno sguardo molto più lungo. Faccio un esempio: per realizzare una t-shirt, per capire quali possono essere le tendenze, devo guardare oltre di un anno. Per pensare di creare un valore sociale devo cercare di guardare non soltanto a un anno, ma anche a dieci, a vent’anni: è necessario per capire quali possono essere le condizioni per cambiare la vita degli uomini, per migliorarla. Bisogna avere uno sguardo molto più ampio, a 360 gradi, per capire dove, e come, sta andando il mondo.
Costruire un’impresa sociale è una scelta etica, è un valore che riguarda la persona. Comporta davvero un sacrificio enorme, un continuo pensare al futuro, e non al prodotto in sé, che ha comunque una rilevanza fondamentale perché è l’anello con il quale si riesce a collegare tutte le azioni.
E’ molto difficile ma bisogna essere davvero abnormal, abbastanza folli. E io credo che noi italiani un po’ lo siamo, abbiamo esperienza, coraggio, follia, e bisogna essere abbastanza folli per pensare a qualcosa che ancora nessuno vede.