Dal recupero di una fabbrica in disuso nel quartiere Pietralata, una delle “mecche” pasoliniane nella periferia romana, nasce l’esperienza del Lanificio. Un modello di impresa sociale “in divenire” che ha saputo coniugare sostenibilità, valorizzazione delle idee e della creatività, riqualificazione degli spazi e del territorio, con la creazione di benessere per la comunità.
Abbiamo intervistato Mamo Giovenco, il direttore artistico. Nelle prossime settimane sarà a Torino per raccontare la sua esperienza agli aspiranti imprenditori del laboratorio formativo Orientalab.

Come nasce la scommessa del Lanificio?
Il Lanificio è nato quasi sette anni fa dall’idea di un gruppo di giovani imprenditori che avevano la voglia e la volontà di dare un messaggio culturale e sociale all’interno della città di Roma, che “bypassasse” i soliti canali di richiesta di investimento o finanziamento da parte delle istituzioni. Volevamo realizzare imprese commerciali che nel tempo, con una programmazione, riuscissero a sostenere altre attività culturali fino a renderle autosufficienti: un procedimento virtuoso inserito in una logica di vera e propria impresa sociale.
La prima attività avviata è stata il club Lanificio 159 che ci ha permesso, dopo un anno e mezzo, di far partire il primo progetto culturale, la scuola di danza contemporanea DAF, che oggi accoglie 280 ballerini provenienti da tutta Italia ed è un corso professionale riconosciuto a livello europeo.
Con le stesse modalità abbiamo aperto, in seguito, il Lanificio Cucina, che tra le altre cose garantisce un lavoro agli stessi allievi della scuola di danza.
Abbiamo aperto una galleria d’Arte Urbana, creato C(h)orde, un festival di musica contemporanea giunto alla terza edizione. Sono attività che, nate da altre, adesso si sostengono da sole, in coerenza con l’obiettivo che ci siamo dati all’inizio. Il tutto senza nessun contributo pubblico.

La scelta di non avere contributi pubblici è una scelta ben precisa?
Si, è stata una scelta ben precisa. Con il progetto Lanificio volevamo dare un segnale, creare un modello economico sostenibile che permettesse di fare cultura e di proporre messaggi d’interesse culturale, generando in qualche modo un crocevia di educazione o di attenzione verso le novità culturali e imprenditoriali.

Qual è il rapporto con gli abitanti del quartiere?
Parto dalla premessa che sei anni fa nella via su cui affaccia il Lanificio non c’era quasi niente, solo un vecchio ristorante. Abbiamo cominciato con il club e la discoteca, non propriamente attività adatte al profilo della popolazione del quartiere. Paradossalmente nei primi anni eravamo più conosciuti a Berlino che a Pietralata! Anche perché non avevamo attuato una comunicazione su larga scale. C’era questa vecchia fabbrica che riprendeva vita, ma nel quartiere non si sapeva bene cosa succedesse dentro, ci vedevano solo come “quelli che facevano un po’ di traffico”.
Poi abbiamo realizzato attività più sociali e culturali. Dalla scuola di danza in poi la gente del quartiere ci ha visto sotto una luce un po’ più positiva. Abbiamo anche dato la possibilità a chi avesse piccole proprietà sul territorio, di affittarle agli allievi che provenivano da fuori Roma, creando un piccolo mercato di locazioni. Per il Lanificio Cucina abbiamo creato un meccanismo particolare di “baratto”: gli abitanti del quartiere ci hanno fornito l’arredamento per il locale con i mobili inutilizzati e riusabili delle loro case, in cambio di pranzi o cene. Abbiamo quindi aperto un’officina e un laboratorio di restauro, dove diamo nuova vita ai mobili e realizziamo corsi creativi e laboratori di design aperti a tutti, anche a persone disagiate. Alla base c’è la condivisione di esperienze e competenze con artigiani, artisti e creativi.
Il Lanificio è anche uno showroom di mobili di recupero e di design: i pezzi sono in vendita, questo ci permette di rinnovare frequentemente gli arredi e di creare un meccanismo economico che permette di sostenere l’officina stessa.

Qual è stata la scintilla alla base della vostra idea imprenditoriale?
Molto semplicemente, la scintilla è stata il non voler abbandonare questo Paese.
Io avevo 25 anni, ero il più giovane del gruppo, ma si può dire che fossimo tutti “figli della crisi”: per noi trentenni o quasi trentenni la crisi economica c’è sempre stata da quando ci siamo affacciati nel mondo del lavoro. La scelta secondo me era semplice: o lasciarsi traghettare dal fiume del malcoltento, o rimboccarsi le maniche e inventarsi qualcosa.
Sulla cultura e sul sociale in Italia c’era, e c’è tuttora, tanto da dire e tanto da fare. Noi abbiamo visto che il futuro era la sostenibilità.
Il Lanificio per noi è un primo progetto, una vetrina, anche se può sembrare un punto d’arrivo. Vogliamo sostenerlo e replicarlo, in modo che diventi un modello anche finanziabile e vendibile, che crei mercato e sostenibilità immediata. Stiamo seguendo e valutando diverse situazioni in altre città, cercando una sostenibilità che non per forza venga da soggetti terzi.

Quali sono le caratteristiche che a tuo avviso deve possedere un imprenditore sociale?
Credo che prima di tutto sia necessario essere determinati, avere un obiettivo chiaro e un modello di business che faccia capire dove si vuole arrivare e con quali tempi, con quali step. Poi deve nascere ovviamente lo studio del “come”.
Una cosa molto importante è non essere avidi. Il Lanificio ormai è un’attività con un giro economico molto alto, fatta da 10 soci, con 52 dipendenti, ma la nostra scelta è stata quella di reinvestire sempre gli utili per creare altre attività. Questo per noi è un modus di vita sociale.
L’attività deve permettere all’imprenditore di vivere, ma anche di continuare a creare situazioni che facciano “girare” l’economia. L’appagamento etico deve essere pari a quello economico.